domenica 7 dicembre 2008

"Perchè dobbiamo dirci Cristiani" di Marcello Pera

Marcello Pera ha pubblicato recentemente il suo nuovo studio intitolato "Perché dobbiamo dirci Cristiani".

La rivista "Tempi" ha intervistato Marcello Pera.

In calce, riporto in questo post un brano tratto dall'intervista rilasciata da Marcello Pera a Emanuele Boffi del settimanale "Tempi" del 1/12/2008 che reputo interessantissima per illustare la tendenza fondamentale del nostro tempo che cancella qualsiasi immagine divina dalla nostra esistenza conseguente alla degenerazione del progetto illuminista di vivere senza Dio.

Questa perversione collettiva è una pratica quotidiana che mostra palese ostilità a tutti coloro i quali credono nella potenza salvifica di Nostro Signore.

Non si tratta di un sintomo - come alcuni corifei del totalitarismo illuminista - di un "superamento", o dell'avvento di una società post-cristiana, MA di un sistematico dileggio di quanto fa diretto, o indiretto riferimento alla Civiltà Cristiana, non solo come fatto storico, MA anche e soprattutto come proposta di Civiltà dell'Amore, che il razionalismo post-illuminista glorifica nelle istituzioni ad esso preposte quali ONU e Unione Europea.

Senza una risemantizzazione della laicità non troveremo un approdo stabile e sicuro e la "crisi" che finalmente ci attraversa mostrerà il suo lato più occulto avente come caretteristica più notevole il definitivo cedimento etico della società occidentale.

La contemplazione del "trono vuoto", libero da Dio, così caro agli illuministi si manifesta in questo frangente attraverso un libertinismo sfrenato e confuso, sia nei rapporti interpersonali, sia in quelli economici: da qui deriva la catastrofe attuale il cui unico antidoto risiede nella consapevolezza di avere delle radici profonde e sicure nell'eredità giudaico-cristiana per costruire su di esse "una nuova esistenza".

Domanda Giornalista: Lei scrive che l'idea illuminista di vivere "come se Dio non esistesse" non dà frutti. Mentre accogliere la sfida di Benedetto XVI a vivere "come se Dio esistesse" darebbe all'uomo contemporaneo una speranza che il nichilismo e il relativismo hanno finito per soffocare. Si spinge anche oltre e dice che noi "dobbiamo" vivere come se Dio esistesse. Che non si debba solo credere "che", ma credere "in". Come questo dovere non sconfina nell'imposizione? Come si preserva la libertà personale? 

Risposta Marcello Pera: C'è una distinzione importante che non deve essere perduta. Credere "che" è diverso da credere "in". Credo che il cristianesimo sia la fonte della nostra migliore civiltà, che le virtù cristiane siano le migliori per la vita individuale e collettiva, che l'idea dell'unità di tutto il genere umano perchè figlio di Dio ha prodotto le migliori conquiste civili, eccetera. Chi crede "in", fa un passo oltre: crede in una Persona, ha esperienza di un incontro, avverte una presenza. Costui è il credente in senso stretto, l'uomo di fede. Credere "che" è indispensabile, è uno sforzo che ciascuno deve fare, ma il credere "in" è un atto di grazia, che non dipende da alcuno sforzo intellettuale. Per il credente, Cristo si dà, si manifesta, si incontra, non si prova o argomenta. à necessario però che chi si limita al solo credere "che" non chiuda la porta al credere "in", non lo consideri un atto irrazionale o impossibile. Il messaggio di Pascal o di Kant consiste proprio nell'apertura al credere "in"

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CONCORDIA RES PARVAE CRESCUNT